lunedì 21 novembre 2016

Maratonina di Uta

Uta, sembra una cosa seria. È quasi uno stato unito: basta aggiungere una lettera mutah e diventa Utah. Penso a capoterrah, maracalagonish, ma non funziona. Invece Utha sì. Capitale Salt lake city, per gli indigeni Sa bidd'e lacu saladu. Perché parlavo di Huta? Ah, già, ieri si correva la mezza. La mezza non è tutto, è mezza, quindi vale quello che vale: metà appunto. Sto forse tergiversando? Ebbene sì e ho buoni motivi per farlo: Bruno è arrivato 3 minuti prima di me, i miei fantasmi mi hanno deriso vedendomi arrancare e le quotazioni del mio seme sono precipitate. Ecco ho confessato tutto e ora che ho ritrovato la pace interiore ne posso parlare con serenità.
Foto di Francesca Erbì
Si parte, si corre, le gambe sono dure, l'asfalto è duro, le scarpe sono dure, le molle dei piedi sono arrugginite. In queste due settimane ho fatto un po' di abitudine alla velocità ma ho trascurato la durezza, correndo quasi sempre su sterrato. Quant'era morbido il molentargius! Qui invece l'asfalto mi martella i polpacci e cerco, più volte ma invano, un assetto di corsa che mi consenta di ridurre l'impatto dei colpi sulla carne. Un ironman dovrebbe essere più duro dell'asfalto e lasciare le impronte dei piedi metallici scavate nel bitume ma non succede; forse non sono più ironman. Dicono che il percorso fosse veloce ma non è vero. Altro che veloce: era assolutamente immobile e ho dovuto fare io tutto il movimento. Fin dal km 3 capisco che non riuscirò a tenere il ritmo previsto di 4' al km e che Bruno e tutti i miei soliti rivali (a parte uno alto e pelato) mi batteranno. Da lì all'arrivo saranno 18 km di resistenza e di domande sul perché di tanta lentezza e sul perché si debba soffrire tanto per tornare due volte al punto di partenza. Per fortuna 21 km passano relativamente veloci e in 1h25 e spicci arrivo, appena prima di trovare le risposte definitive ai miei dubbi esistenziali.

Foto di Gavino Sole
Le piacevoli chiacchiere del dopo gara mi distolgono da ulteriori riflessioni. Sono anche quinto di categoria e ultimo dei premiati e salire sul podio consola parzialmente il mio ego e mi consente una piccola rivincita sui miei fantasmi che anche se molto più veloci, spesso restavano giù a guardare.
Tonino mi riaccompagna alla mia auto che avevo lasciato a Capoterra. Salgo, infilo le chiavi e parte la musica. La macchina invece no. Spengo, riaccendo e invece del rumore del motorino di avviamento si sente la musica dei fiery furnaces. Dopo altri due tentativi capisco che la mia auto è ormai ridotta ad un impianto stereo. Chiamo a credito Maria ma non risponde. Potrei insistere o provare a chiamare il numero di casa ma decido di non farlo. Esco dalla cabina stereo e mi avvio a piedi verso casa, per il primo minuto camminando, poi accennando una corsetta. Ogni tre passi i calzoni calano e devo ritirarli su con la mano prima che finiscano in terra. Allora svuoto le tasche, tenendo in mano il portafogli e liberi dal peso del denaro ora i calzoni stanno su da soli. La maglietta e le mutande di cotone si inzuppano subito di sudore, non vedo l'ora di pisciare, sono stanco ma la corsa è rilassata; devo solo andare dal punto A al punto B senza che nessuno mi controlli il tempo e con una forte motivazione: tornare a casa, aprire il frigo e prendere una birra! Questi 4 km imprevisti mi fanno ritrovare il significato originale della corsa e ripensare con serenità al futuro.
Fra due settimane c'è Cagliari. Sembra una cosa seria. È quasi una città americana: Calgary, …

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